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Gli immigrati (e qualche giudice) salveranno il Cavaliere?

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– In questi giorni, la querelle attorno all’applicabilità del D. Lgs. 235/2012 (c.d. Legge Severino) è a tratti infuocata come il sole agostano. Secondo alcuni giuristi, come Tinti, è solo la sentenza a rilevare, non il reato. Dunque non si pone un problema di irretroattività.

Invece secondo altri, come Guzzetta, non si può prescindere dal fatto reato, dunque la norma opererebbe in modo retroattivo, nonostante il carattere penale della decadenza o addirittura di sanzione “equiparabile alla pena”, secondo l’interpretazione della  Corte Europea e dunque irretroattiva. Altri ancora, come Mirabelli, giudicando la decadenza-incandidabilità effetto amministrativo e non penale, la ritengono legittimamente correlata dal legislatore all’ idoneità a ricoprire funzioni di rilevante importanza democratica.

Se da un lato, il tenore della legge è chiaro, dunque secondo alcuni incontestabile, esiste nel panorama legislativo almeno un esempio di norma di carattere amministrativo che finisce per dare ragione ai sostenitori dell’ex premier Silvio Berlusconi.

L’aspetto curioso è che tale appiglio normativo provenga da una norma introdotta dalla famigerata legge n. 189/2002, la c.d. “Bossi-Fini”, più volte falcidiata dalla Consulta, e che tale norma, verosimilmente contro l’intenzione dei suoi estensori, venne significativamente ridimensionata dalle pronunce giurisprudenziali.

Tale norma introdusse (o rafforzò) un principio di “meritevolezza” per l’ingresso nel nostro Paese dei cittadini non comunitari. Infatti l’art. 4 comma 3 del D. Lgs. 286/98 (c.d. Testo Unico Immigrazione), come appunto modificato dalla citata novella del 2002, all’art.4 vieta automaticamente l’ingresso e/o il rinnovo del permesso di soggiorno agli stranieri condannati per i reati che prevedano l’arresto obbligatorio.

In altre parole, gli stranieri condannati, secondo il legislatore del 2002, non possono fare ingresso in Italia o rimanervi ove già residenti. Ora, gli stranieri che commisero reati prima del 10 settembre 2002, data di entrata in vigore della “Bossi-Fini”, ancorché condannati posteriormente, si videro in molti casi bocciare dalle Questure la richiesta di permesso di soggiorno, con conseguente espulsione dal Paese, in quanto tale norma venne applicata retroattivamente.

Ma i Giudici dei T.a.r. e del Consiglio di Stato, investiti da una valanga di ricorsi, bocciarono il “divieto automatico retroattivo” sul presupposto che la norma “considerate le gravi conseguenze che essa comporta, deve essere interpretata come applicabile, ratione temporis, solo ai reati commessi dopo la sua entrata in vigore; pertanto, in caso di condanna penale successiva all’entrata in vigore di tale disposizione, occorre avere riguardo alla data del commesso reato, potendosi applicare l’automatismo espulsivo solo nel caso in cui anche il reato, e non solo la condanna, siano successivi alla data di entrata in vigore suddetta(Cons. Stato n. 1894 del 2010).

Quantomeno tali condanne non comportano alcun automatismo ma devono essere considerate insieme ad altri elementi di “indesiderabilità”. In altre parole, il punto di diritto applicabile all’affaire “incandidabilità” – e ben potrebbe argomentarsi lo stesso principio valido in materia di soggiorno degli stranieri –  è che nessuno può essere sanzionato di “indegnità” se al momento del fatto-reato non sapeva che, commettendolo, avrebbe subìto tale conseguenza.  Che il Cavaliere debba ringraziare quei coraggiosi immigrati che, vistisi rifiutare il soggiorno, ricorsero con successo ai Giudici amministrativi?


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